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Un viaggio nel sake

Parlare di Giappone, ai più, è parlare di una terra lontana, di una cultura strana e sconosciuta, facilmente aliena ma certamente avvincente e misteriosa. Una cultura frutto di una storia e di una civiltà millenaria totalmente avulsa ed estranea ai classici canoni occidentali. Anche l’approccio alla cultura del bere giapponese non sfugge, per il sommelier, a questa distanza culturale: ecco perché una degustazione di sake è un vero e proprio incontro e un viaggio dentro storia e cultura giapponese. Grazie piacevole capacità oratoria di Gaetano Saccoccio, degustatore giramondo, personaggio sempre alla caccia di anime di produttori, vigne, artigiani e fatti da raccontare, ricercatore di storie degne d’esser viste, vissute e raccontante, questo viaggio è stato, non dico reso possibile, ma appena abbozzato, suscitando la curiosità e l’interesse dei molti presenti alla degustazione organizzata dalla delegazione di Genova, appunto sul sake.

Il sake, prodotto da secoli in Giappone, è la bevanda alcolica ricavata dalla fermentazione del riso di cui si conosce ancora poco nel mondo occidentale. In generale il termine sake è quasi l’occidentalizzazione commerciale di una parola che in giapponese significa molto genericamente alcol; più correttamente l’attribuzione specifica di alcol scaturito dalla fermentazione del riso, i giapponesi lo indicano con la parola nihonshu.

Il processo produttivo del sake si perde nella notte dei tempi e alcuni documenti del XVI sec descrivono processi e tecniche antichi e tuttora utilizzate.

Il sake prodotto in un’azienda (sakagura) è frutto dell’esperienza di un maestro fermentatore (toji) che utilizza le materie prime fondamentali per la realizzazione del sake: il riso (kome), l’acqua (mizu), la tecnica (waza) e il lievito madre (shubo). Si parte ovviamente dalla raffinatura del riso, lucidato e macinato sino a ottenere il cuore interno d’amido; l’entità del processo di raffinamento indicato in percentuali (per es. 25% - 50% - 60%) è l’espressione della maggiore o minor qualità del sake. Poi i granelli di riso sono mantenuti per circa un mese dentro sacchi a rinforzarsi di umidità, poi lavati e messi in ammollo in un prestabilito quantitativo d’acqua ritenuto ottimale per l’assorbimento e la cottura successiva a vapore. In genere parte della partita di riso al vapore è divisa in due blocchi: su uno è asperso con la muffa del koji-kin (Aspergillus oryzae), un fungo in grado di scindere l’amido tramutandolo in zucchero; l’altro blocco confluisce direttamente sia nel tino di fermentazione sia nel composto che andrà a formare la base del lievito madre. Il koji è fondamentale per lo sviluppo del gusto del sake: favorisce lo sviluppo di aminoacidi e zuccheri (il riso ne è privo) che conferiscono quel gusto intensamente appagante definito umami.

Fase successiva è il processo fermentativo che avviene in grandi vasche controllate da addetti specializzati che fanno una sorta di follature continue. Qui in una decina di giorni si assiste alla scomposizione degli amidi in zuccheri semplici e alla tramutazione in alcol. Segue la fase della pressatura, filtrazione per precipitazione e chiarificazione e pastorizzazione del prodotto.

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