Massimo Zanichelli
Tratto da Rivista Vitae n. 40 di giugno 2019
"Quella striscia non più finita di case, di ville, di paesi, che si specchiano in mare, e si proiettano su fondo di colline verdeggianti coperte di ulivi e vigneti, interrotti a volta a volta da rupi ignude, pittoresche che si avanzano in mare." Antonio Stoppani, Il Bel Paese
Ogni volta che ci si lascia alle spalle Spezia (come la chiamano i locali), percorrendo la serpentina della litoranea per inoltrarsi lungo i frastagliati declivi delle Cinque Terre – gli insediamenti costieri fondati intorno all’anno Mille dalla popolazione della Val di Vara –, permangono, intatti e rinnovati, lo stupore e l’incanto. Si può conoscere la struggente, aspra bellezza di Riomaggiore, Manarola, Corniglia, Vernazza e Monterosso con l’auto lungo i tornanti a nastro che aprono sguardi impressionanti sulle loro coste (tra cui le celebri Costa de Sèra di Riomaggiore, Costa da Posa di Volastra e Costa de Campu di Manarola o i Tramonti di Biassa e di Campiglia); con il treno attraverso le gallerie scavate nella montagna; con il trenino a cremagliera nel vertiginoso digradare delle rupi e delle terrazze; a piedi, lungo impervi sentieri e mulattiere che s’inoltrano nel lussureggiante paesaggio mediterraneo; o in barca per rimanere rapiti dai prominenti prospetti. Tutt’attorno si staglia lo spettacolo di una viticoltura aggrappata alla roccia – estrema, radicale, irriducibile –, una viticoltura di montagna (l’Appennino la stringe da sopra) che si tuffa nel Mar Ligure, un mare cui è difficile accedere, che permea l’aria intorno, che si frange con le sue onde spumose sulle scogliere.
Da Portovenere, altro luogo incantato, a Punta Mesco, è un susseguirsi mozzafiato di terrazze millenarie aperpendicolo sull’acqua, erette con muri a secco dal lavoro secolare dell’uomo, che ha disboscato i lecceti arrampicandosi a quote d’inimmaginabile fatica per sopravvivere e sfidare l’impossibile. L’orizzontalità delle pianete (“stretti rettangoli, strisce di terra coltivate a vigna” scriveva Mario Soldati in Vino al vino), oggi chiamate piane, ma anche fasce o cian, contrasta con la verticalità delle pendenze.
Tutto è accidentato, tutto è ripido, le scale punteggiano il paesaggio come i borghi e le case: i gradoni delle vie e delle abitazioni hanno spesso bisogno di un corrimano. L’emergenza rocciosa entra perfino nei locali. Le vigne si misurano in metri quadri (l’ettaro è una dimensione fuori scala), perché qui tutto, dal punto di vista dello spazio, è ridotto, circoscritto (poderi, case, cantine, paesi) ma ha il respiro dell’infinito. I borghi aggrappati alle scogliere, le case colorate, i cimiteri in posizione panoramica, i rosoni medievali delle chiese, il profumo della macchia mediterranea, gli azzurri e i blu del cielo e del mare scandiscono tra dislivelli in ogni dove le principali ricorrenze di questi cinque luoghi di sudore e splendore. I vini Doc del territorio sono due, prodotti in percentuali variabili con i vitigni bosco, albarola, vermentino più altre varietà locali minoritarie come ruzzese, scimiscià, piccabùn, brujapagià e frappelà: un bianco salmastro e il celebre, irresistibile Sciacchetrà.
Quest’ultimo, chiamato tradizionalmente Rinfursà o Refursà (Rinforzato, per la tecnica dell’appassimento delle uve), deve il proprio nome dalle parole dialettali sciacàa, “schiacciare”, e trà, “in mezzo”, ma anche “trarre” o “mettere da parte” in relazione sia all’invecchiamento (la Riserva può essere venduta dopo tre anni dalla vendemmia) sia all’abitudine di un tempo di conservarlo come vino “diplomatico” da aprire in circostanze speciali (la produzione è tuttora di poche, preziose centinaia di mezze bottiglie per ogni cantina). Il vitigno principale dell’uvaggio è il bosco, vocato all’appassimento per la buccia spessa e il grappolo spargolo. Come già raccontava Soldati, i grappoli appassiti vengono sgranati e spremuti a mano, “tra i polpastrelli del pollice, dell’indice e del medio: acino per acino”: “le macchine non servono” perché l’uva “è troppo appiccicosa, quasi candita”.
Venendo da Genova è l’ultima delle Cinque Terre, ma da La Spezia, sua provincia, è la prima. Deve il proprio nome al “rivo maggiore” (rivus Major), il torrente coperto che scende a mare e su cui oggi scorre la via principale Cristoforo Colombo. L’abitato è scandito da due compatti ordini paralleli di case che si disallineano su livelli verticali collegati da due ascensori. Nei pressi della piccola marina, il punto più pittoresco con le barche e i gozzi in secca, l’agglomerato degli edifici sembra quasi cercare il cielo. Di notte, quando è illuminata, la parte alta del borgo può ricordare, in un sussulto allucinatorio, i Sassi di Matera. Passeggiando ci si perde volentieri nel dedalo dei viottoli e dei carrugi.
In località Possaitara (la sua cantina di chiama Possa) Heydi Bonanini ha accorpato tre ettari da 74 diversi appezzamenti: il frazionamento qui è tale che ci sono parcelle da 220 metri quadri con 7 diversi proprietari. “Ho investito vent’anni di sti- pendi per mettere insieme tutto questo”. Dall’alto il colpo d’occhio sulla forra è vertiginoso: un assieme di balzi, precipizi, scalini, dirupi, scogliere e flutti. La discesa con la monorotaia è indimenticabile, un travelling che si libra nell’aria: da 160 a 6 metri sul livello del mare (in senso stretto) dritti sugli scogli. Le terrazze che lambiscono le onde vengono vendemmiate per prime e le uve im- barcate sul gommone. “Una volta all’anno faccio il bagno qui, in estate, alle sei e mezza del mattino, dove l’acqua riflette ancora la luce dell’alba ed è uno specchio trasparente”. Il Cinque Terre 2023, da filari e pergole basse che crescono su pietrisco di arenaria e la cui età varia dai 10 ai 120 anni, fa cinque giorni sulle bucce e matura in anfore di terracotta. Ha colore intenso, naso prorompente (fiori gialli, erbe aromatiche, humus salmastro), bocca succosa, piena di bucce d’agrume (cedro, limone, pompelmo), di forza minerale, di persistenza. Lo Sciacchetrà 2021 (pigiatura con i piedi, 28 giorni sulle bucce, un anno in caratelli di ciliegio e pero) ha un carattere accattivante (cera d’api, confettura, miele d’erica, frutta candita), ma la versione Underwater dello stesso vino (8 mesi in mare in cestoni d’acciaio a 52 metri di profondità) è più brillante nel colore, nella succosità, nella freschezza, nella persistenza: tripudio di erbe aromatiche, scorza d’arancia, kumquat.
Nella valle di Albana, a Campiglia, sul bordo più orientale delle Cinque Terre, c’è un antico insediamento olivetano che guarda l’isola del Tino, storicamente uno dei primi del territorio a essere coltivato a vigneto e uliveto. A metà degli anni Novanta Maria Beghi ne eredita la proprietà, acquisita dalla famiglia alla fine del XIX secolo. Nel 2010 la produzione riceve una scossa con l’arrivo di Walter De Battè, sensibile interprete e profondo conoscitore del territorio. È lui ad accompagnarmi alla tenuta La Torre, un eremo cui si accede solo con un fuoristrada dopo un lungo e accidentato tragitto in mezzo al bosco. L’anfiteatro in riva al mare, delimitato dal fosso di Albana, è maestoso. L’ettaro coltivato conserva un patrimonio di 4000 metri quadri di vecchie viti quasi centenarie, che convivono con piante più recenti su terrazze recuperate. “Il terreno ha una roccia friabile ma un’arenaria durissima, usata per lastricare corso Vittorio Emanuele a Milano” dice Maria. “Le rocce rosse, ricche di ferro e mangane- se, conferiscono al vino una mineralità peculiare diversa da quella di Riomaggiore” specifica Walter.
Tra i filari si espande il profumo dell’elicriso. Il Cinque Terre 2022 ha un colore acceso e intenso (fa una macerazione di tre giorni), una trama aulente e rupestre (buccia di albicocca, segno tannico, echi salmastri). Più incisivo, persistente e salino è il Cinque Terre Alter Ego 2021, mille bottiglie dalle vecchie vigne di bosco. Sorprendente lo Shaula 2020 (il nome indica l’ultima stella della costella- zione dello Scorpione), da uve marselan (incrocio di cabernet sauvignon e grenache), autorizzate in Italia dal 2014: è un rosso che seduce per il frutto selvatico, le note di garrigue, il contrasto acido. Da un vigneto del 2001 di granaccia (85%) e syrah a 500 metri sopra Riomaggiore, Walter De Battè produce con il progetto Prima Terra un rosso da invecchiamento (matura per 12 mesi in rovere di Slavonia), uno dei primi del territorio, chiamato Çericò, dal ligure çero (cerro) e co (colle), “colle dei cerri”. Il 2017 è succoso e sanguigno, tonico e pepato. “Per me il rosso mediterraneo ha questa leggerezza.
Riviere,/ bastano pochi stocchi d’erbaspada/ penduli da un ciglione/ sul delirio del mare;/ o due camelie pallide/ nei giardini deserti,/ e un eucalipto biondo che si tuffi/ tra sfrusci e pazzi voli/ nella luce;/ ed ecco che in un attimo/ invisibili fili a me si asserpano,/ farfalla in una ragna/ di fremiti d’olivi, di sguardi di girasoli.
Eugenio Montale, Riviere in Ossi di seppia
Nasce su terreni magri, essenziali che donano un tannino serico e incisivo”. Il bianco Harmoge (“armonia” in latino arcaico) proviene invece da piante dai 20 agli 80 anni d’età di una vigna ad anfiteatrodi 6000 metri quadri sopra Manarola in località Zuncone, zona di sabbia e scisti. Fa sei, sette giorni di macerazione sulle bucce, un anno in rovere di Slavonia e un altro in acciaio. Il 2021 ha brillante colore dorato-arancio, spiccata nota balsamica, sentori di albicocca ed erbe aromatiche (mirto, timo, ginepro), tratto al contempo elegante e viscerale.
Arroccata su uno scoglio di arenaria attorno a cui si stringono un gruppo compatto di pittoresche case, Manarola ha in via Discovolo il suo segmento più importante (scende alla marina dalla piazzetta prin- cipale con la gotica parrocchiale di San Lorenzo), mentre via Belvedere offre scorci sulla costa vitata del versante ovest e termina in un’altra piazzetta panoramica dedicata a Eugenio Montale, dove una targa riporta i versi iniziali della poesia Riviere. Circondata originariamente da mura, bella e aggraziata, Manarola è un balcone sul mare percorso da un dedalo di carrugi su più livelli collegati da scalinate irregolari, “cui non ci si abitua mai” mi dicono un paio di ragazze del luogo. In una casetta a ringhiera vicino al rio Groppo si nasconde alla vista la cantina di Alessandro Crovara, detto Cocuzzo, soprannome che gli deriva dal cocuzzolo sopra il caschetto dei capelli che aveva da piccolo. L’ha acquistata nel 2018 investendo tutti suoi guadagni e rinunciando ad affittare le camere, una delle principali risorse economiche delle Cinque Terre. Da 10 anni su 17 di attività fa il vignaiolo a tempo pieno e si occupa di tutto, dalla vigna (quasi un ettaro complessivo con viti dai 15 ai 60 anni d’età) alla contabilità, producendo bianchi schietti e veraci, come appaiono gli assaggi dalla vasca, ma già pronti per l’imbottigliamento, del 2023: un Cinque Terre, proveniente dai 6000 metri quadri della Punta del Luogo, giocato sulle note quasi esotiche del frutto, e un Bianco Antico passato sulle bucce (le uve arrivano dalla Costa de Campu) dal profilo rustico, gustoso, sapido. Lo Sciacchetrà 2021 è una sinfonia di frutta candita (agrume, albicocca, scorza d’arancia, zesta di mandarino), ha sorso dolce-sapido, beva invitante, limpido allungo. “Investo sul mio lavoro, sulla mia fatica, non ho altre risorse. Quello che noi vignaioli chiediamo al Parco Nazionale delle Cinque Terre è la manutenzione dei muretti a secco. Ogni anno ne crolla uno o due, e non ho materialmente il tempo per rifarli, gli anziani abbandonano la vigna perché non riescono più a rialzare i muri e per trasportare i sassi che servono ci vuole l’elicottero, il cui costo è di 25 euro più Iva al minuto”.
Unico borgo delle Cinque Terre senza accesso diretto al mare, Corniglia, che pare starsene appollaiata sul suo scoglio aspettando che le onde si frangano contro le sue pareti di roccia, è anche la più piccola e la più alta sul livello del mare. Vanta la scalinata più lunga: i 377 scalini della Lardarina che la collegano alla stazione ferroviaria. La sua vocazione agricola (terrazze più pianeggianti, terra più profonda, giusta umidità) risale indietro nei secoli: negli scavi di Pompei sono state ritrovate delle anfore con la dicitura Cornelia. Dopo avermi mostrato il magnifico belvedere di Santa Maria (deve il nome alla chiesa caduta in mare verso la metà dell’Ottocento), che getta uno sguardo da Manarola a Monterosso, Riccardo Giorgi mi accompagna a vedere il mosaico degli orti, degli agrumeti e dei vigneti che si aprono alle spalle dell’abitato.
Saliamo dunque a Cían du Giorgi, la piccola cantina di Riccardo a San Bernardino, un paesino dai silenzi assoluti anche nelle accalcate giornate estive che si trova a metà strada tra Corniglia e Vernazza, di cui è frazione. Dopo una lunga esperienza a Bordeaux, Riccardo è tornato definitivamente nella sua terra natia con la moglie Adeline per dedicarsi al recupero delle vecchie vigne a pergola e dei suoi terrazzamenti abbandonati. L’Azzurro nasce da un piccolo, spettacolare vigneto sopra il porto e la ferrovia di Vernazza, il Rieu, disposto su gradoni. L’Amante dei Venti proviene dai 6500 metri quadri tra i 450 e i 550 metri di quota nell’entroterra di Vernazza: il 2022 (macerazione in clayver, maturazione in demi-barrique) espande il rigore dell’Azzurro in una trama rocciosa di umori d’erbe, di tensioni laminate, di sapida sottigliezza. L’Amante del Sole arriva dalla Costa del Corniolo di Riomaggiore, 3500 metri di terrazze con basse pergole a piede franco che, dopo un lungo restauro, stanno finalmente per rialzarsi e tornare alla loro forma originaria. “Stiamo ricostruendo il pergolato: è il momento più delicato, perché sono vigne di 150 anni rimaste accasciate a terra per 15 anni. Se penso che ci lavoriamo dal 2018 e che parliamo di un centinaio di piante mi viene quasi male, ma vederle rinascere è un’emozione”. Il 2022 (macerazione integrale di 10 mesi) esprime una polpa matura e succosa, un pullulare di fiori gialli, di erica, un senso di mare, di naturalezza, un sapore infiltrante. Lo Sciacchetrà Riserva 2020, frutto di diversi passaggi in vigna sul modello del Sauternes, è una sinfonia di suggestioni e sapori: erbe officinali (rosmarino, eucalipto), miele, canditi, mallo di noce, caramello salato, persistenza fresco-sapida.
Tutt’attorno si staglia lo spettacolo di una viticoltura aggrappata alla roccia, una viticoltura di montagna che si tuffa nel Mar Ligure, un mare cui è difficile accedere, che permea l’aria intorno, che si frange con le sue onde spumose sulle scogliere.
Agiata e signorile, come dimostra la sfilata di locali e negozi lungo via Roma, l’asse centrale ricavato dall’interramento del torrente Vernazzola che arriva fino alla pittoresca piazzetta, Vernazza deve la sua fama di “salotto delle Cinque Terre” alla ricchezza accumulata grazie al facile approdo via mare e al più ampio porticciolo del territorio: il vino locale veniva commercializzato già in epoca romana. Il toponimo Vernazza è attestato nel XII secolo. Data la sua posizione strategica, il borgo fu fortificato a partire dall’XI secolo. La torre cilindrica di avvistamento, pezzo superstite del Castello Doria, domina la baia: lo spiazzo è meta agognata per gli scorci panoramici. La monorotaia compie due fermate in verticale, unendo nella spedizione il veterano Bartolomeo (detto Bartolo) Lercari della cantina Cheo e il giovane Luca Ciotoli della cantina Eroico. La prima tappa è sulla collina di Fossà: 1,3 ettari lungo 70 terrazze di vecchie vigne riconvertite a spalliera che Bartolo ha recuperato all’inizio del nuovo millennio con la moglie Lise Bertram, agronoma danese.
Ambedue hanno lasciato le rispettive università (Pisa e Friburgo) per dedicarsi alla viticoltura: “Non sopportavamo la vista delle nostre vigne abbandonate di fronte a casa dopo che nel 1997 l’UNESCO aveva inserito le Cinque Terre tra i Patrimoni dell’Umanità”. Bartolo è l’erede di una lunga tradizione familiare: il bisnonno aveva la vinaccea (barca) per vendere il vino ai bastimenti che ormeggiavano nei pressi di Vernazza mentre la nonna vendeva l’uva nella gaggetta (cesta) al mercato centrale di Spezia. “Per vendemmiare le donne usavano invece il corbino, sempre in vimini, di forma quadrata, che conteneva almeno 20 chili e veniva portato sul capo. La mia famiglia è stata una delle prime ad avere il torchio, il pavimento in cemento e l’acqua potabile in cantina, e il tavolo all’aperto per la mescita”.
Il Cinque Terre Cheo 2022 ha un’allure aromatica di fiori bianchi, susina, agrume e una polpa succosa solcata da una penetrante vibrazione minerale. Il Cinque Terre 2022 Perciò (soprannome del proprietario della vigna) non è meno agrumato (buccia di limone e mandarino) né meno intriso di sapori scagliosi e affilati. Lo Sciacchetrà 2020 ha veste ambrato-mogano, un olfatto di fico, dattero, carruba, mallo di noce e frutta secca, una bocca viscosa quanto contrastata, con allungo balsamico-sapido. Poco più sopra, tra i 120 e i 170 metri di quota, ci sono gli 8000 metri quadri di vigneto gestiti da Luca Ciotoli, trentunenne guida ambientale e ricercatore universitario che un tempo non sopportava nemmeno l’odore della campagna e ora l’ha eletta a ragione di vita. “Il bisnonno materno, che apparteneva a una delle famiglie più benestanti di Vernazza, i Rollando, già commerciava vino. Il nonno era laureato in ingegneria, lavorava per Fincantieri ma ha sempre mantenuto un forte le- game con la vigna”. Il padre, che fa il pescatore, ha cominciato a recuperare la prima piana 25 anni fa, trovando perfino una barca in mezzo al bosco, tuttora visibile. La cantina è a Sestri Levante, dove la famiglia di Luca gestisce un ristorante nella Baia del Silenzio. L’Eroico Pinotto 2022 (porta il soprannome di nonno Giuseppe) fa due settimane di macerazione in acciaio (dal 2023 sarà in anfo- ra): colore dorato, profumo dei fiori gialli, intense note salmastre, tensione sapida. Da quassù si ammira tutta Vernazza, con le sue linee sinuose che si sporgono sul mare.
Il comune più esteso delle Cinque Terre, e quello più facilmente raggiungibile insieme a Riomaggiore, è diviso in due parti, separate dal promontorio roccioso di San Cristoforo e dalla galleria, che svolge quasi una funzione di confine. La prima è la zona balneare di Fegina con l’ampia spiaggia; l’imponente scoglio Du Ma Pasu (“dove il mare passa”); la figura del Gigante, una scultura di Nettuno in cemento armato alta 14 metri (prima che venisse distrutta, la sua spalla reggeva una conchiglia gigante dove la gente andava a ballare); e la villa di tre piani in via IV Novembre dove soggiornava Eugenio Montale con la famiglia. La seconda è il borgo vecchio, l’originaria Monterosso, toponimo citato dal 1056. Il Convento dei Cappuccini custodisce un clos di vecchie vigne, un uliveto e il limoneto più antico del paese, mentre l’annessa chiesa è una piccola pinacoteca: quadri di Luca Cambiaso, Bernardo Strozzi e una Crocifissione attribuita ad Antoon van Dyck.
Nell’entroterra dimorano dei magnifici agrumeti, alcuni dei quali chiusi da muri a secco, altri abbarbicati in luoghi remoti dove ci si arriva solo a piedi. E le vigne, naturalmente. Sebastiano Catania è nato a Mistretta, provincia di Messina, ma all’età di un anno si trasferisce con la famiglia in Toscana, a Poggibonsi. Arriva a Monterosso all’età di 24 anni facendo un po’ di tutto (bagnino, muratore, camionista) prima d’imparare il lavoro in campagna e di cimentarsi con le vigne del suocero. È il 2010 e cinque anni dopo fa il viticoltore a tempo pieno, gestendo un ettaro e 3000 metri quadri di vigna. Il Cinque Terre si chiama Vétua come l’azienda: è il toponimo del promontorio con vista mozzafiato su Monterosso dove si trovano la casa di Sebastiano e Rosy (la cantina è invece in paese) e i 5500 metri quadri vitati con una nutrita presenza di vecchie vigne che crescono su un antico terreno di scisto arenaria pieno di sassi sbriciolati (scagiuina). Il 2022 è un bianco sussurrato, rigoroso e minerale che si accende con il passare dei minuti. Ancora più dritto e verticale, con un’intensità pietroso-rocciosa quasi accecante, è l’Ö 2021 (il nome omaggia l’intercalare locale), che riunisce le uve di alcuni sparsi appezzamenti di Monterosso, tra cui il Fuisso a Fegina e il vigneto del Mesco, 2000 metri quadri sabbiosi cui si accede a piedi lungo il sentiero dei Bagari. Lo Sciacchetrà Riserva 2016 ha colore ardente, un olfatto screziato (cera, miele, ginepro, mirto, erbe selvatiche), un sorso denso e dinamico, dal gusto di albicocca secca e dall’acidità elettrica.
L’autore ringrazia per la collaborazione Laura Picardi, Yvonne Riccobaldi e Luisa Landi di AIS La Spezia.
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